Vetta assoluta del cinema neo-noir, Chinatown di Roman Polanski amalgama l'intreccio giallo a una dimensione più sinistra, legata all'idea di un Male insondabile e metafisico.
"Dispiace a chiunque abbia lavorato là." "Dove?" "A Chinatown. A tutti dispiace; e a me ha portato sfortuna." "Perché?" "Non si sa mai bene che cosa succede... come con te."
Può sembrare un titolo ingannevole, Chinatown: un'eco fugace nel passato del protagonista, il detective privato Jake Gittes, rievocata in maniera casuale, ma senza distogliere l'attenzione dall'indagine al cuore del film, legata alla misteriosa morte di Hollis Mulwray e alla losca gestione delle riserve idriche di Los Angeles. È soltanto più tardi, durante la notte d'amore fra Jake ed Evelyn Mulwray, che il quartiere cinese torna a riemergere nella conversazione fra i due personaggi: una conversazione legata al precedente impiego di Gittes presso il distretto di polizia di Chinatown, dove la regola per le forze dell'ordine consisteva nel fare "il meno possibile". Il peso di un passato tormentoso costituisce ovviamente un tòpos del noir fin dall'età classica del genere, e l'investigatore interpretato da Jack Nicholson non fa eccezione: è solo quando fa riferimento a Chinatown che l'imperturbabilità esibita fin dalla scena d'apertura pare incrinarsi, almeno per qualche istante.
La Los Angeles del 1937 e la New Hollywood del 1974
Nelle parole di Jake Gittes, Chinatown assume dunque una valenza emblematica: luogo della memoria, e pertanto luogo dell'anima, in cui alberga un indefinito senso di colpa. Ma il quartiere losangelino suggerisce anche un'altra chiave di lettura: l'impossibilità di stabilire l'ordine in un territorio governato dalle leggi del caos. In fondo il giallo, a cui afferisce il filone hard-boiled proprio della narrativa di Dashiell Hammett e Raymond Chandler (così come l'analogo settore del noir cinematografico, da Il mistero del falco a Il grande sonno), è imperniato su questo principio: l'investigatore è colui che porta la conoscenza, e quindi l'ordine, in un microcosmo che era rimasto immerso nelle tenebre dell'ignoto. Ma a Chinatown, l'impresa è forse fuori portata: Jake ne parla come di un mondo altro, in cui non si può contare su alcuna certezza ("Non si sa mai bene che cosa succede") e in cui gli sforzi per contrastare il caos rischiano di provocare conseguenze fatali.
I modelli del noir classico, a partire dall'ambientazione nella Los Angeles del 1937, sono scrupolosamente riproposti nel film di Roman Polanski, distribuito dalla Paramount nelle sale americane il 20 giugno 1974. Punta di diamante nella filmografia del regista polacco, a sei anni di distanza dall'horror seminale Rosemary's Baby e dopo due titoli assai poco fortunati (Macbeth e Che?), Chinatown segue Il lungo addio di Robert Altman in uno specifico ramo della New Hollywood, volto a rivisitare i canoni del noir degli anni Trenta e Quaranta alla luce della sensibilità contemporanea e delle nuove istanze di cui è innervata la cultura americana degli anni Settanta. Per l'opera di Polanski, la consacrazione sarà plebiscitaria e immediata: anche in virtù della presenza di due fra i massimi divi dell'epoca, Jack Nicholson e Faye Dunaway, Chinatown si rivela un grande successo di pubblico e si aggiudica quattro Golden Globe (tra cui miglior film) e il premio Oscar per la sceneggiatura di Robert Towne, su un totale di undici nomination.
Un Jack Nicholson à la Bogart e la dark lady di Faye Dunaway
A prima vista, lo script firmato da Towne dà l'impressione di far leva sugli archetipi del noir già dall'introduzione della coppia di protagonisti. Jake Gittes, destinato a diventare uno dei ruoli-simbolo nella carriera di Jack Nicholson, mostra da subito il cinico pragmatismo dei personaggi di Humphrey Bogart, nonché un'ironia perfino più provocatoria; è solo con l'incedere dell'indagine che l'apparente distacco del detective cederà il posto a un coinvolgimento via via più intenso. Ma ancor più del rude eroe di Nicholson, è Evelyn Mulwray a sancire una profonda cesura rispetto alla convenzionale immagine della dark lady. Foriera di ambiguità già dalla sua 'doppia' apparizione, prima con la falsa identità assunta dalla Ida Sessions di Diane Ladd, poi con l'eleganza algida e altera di Faye Dunaway, Mrs. Mulwray sprigiona un fascino legato in maniera inestricabile alla sua natura enigmatica: la cura impeccabile degli abiti e del trucco è una maschera di sicurezza dietro cui si cela una sotterranea inquietudine, mentre il ferreo autocontrollo dell'aspetto e delle parole stride con il nervosismo dei gesti.
E alla figura di Evelyn si lega infatti la seconda dimensione dell'intreccio del film, non a caso la più memorabile. Le inondazioni notturne del bacino idrico, su cui Jake si trova a indagare con il rischio di rimetterci il proprio naso da segugio (la coltellata inferta dallo scagnozzo impersonato da Roman Polanski), costituiscono poco più di un MacGuffin, funzionale allo sviluppo della detection fino alla visita alla casa di riposo Mar Vista, che fornirà la chiave del mistero relativo alle risorse d'acqua di Los Angeles. È a quel punto che il rapporto fra Jake ed Evelyn si sposta su un piano più intimo, con la magnifica partitura musicale di Jerry Goldsmith a corredare la passione fra i due amanti, fin quando un nuovo intrigo non si inserisce di colpo a spezzarne l'idillio: una telefonata nel cuore della notte, un pedinamento in auto lungo le strade di Los Angeles e un ulteriore segreto su cui far luce. Un segreto che, come il rimorso di Jake, affonda le sue radici nel passato, e la cui atrocità è racchiusa nel micidiale binomio usato da Evelyn per definire la giovanissima Katherine.
I migliori film di Faye Dunaway, da Chinatown a Quinto potere
"Il futuro, signor Gittes": la cognizione del Male
Non sorprende dunque che a rendere Chinatown un'opera di tale impatto non sia unicamente la precisione labirintica del plot poliziesco, in cui si riflette il marciume endemico di una società eretta su un immenso deserto: laddove il film di Roman Polanski travalica i confini del noir classico è nell'improvvisa, scioccante cognizione di un Male dai contorni quasi metafisici, che grava sui personaggi con l'inesorabilità del fato in una tragedia greca, continuando anche da lontano ad avvilupparli nelle sue spire. Un Male incarnato dalla crudeltà serafica del milionario Noah Cross, villain affidato da Polanski a uno dei massimi alfieri del noir hollywoodiano, il regista John Huston. Cross è in scena solo per pochi minuti, sufficienti però a trasformarne la presenza malevola in un'entità per certi versi addirittura fantasmatica: lo spettro di un trauma mai elaborato e il volto di un capitalismo dai tratti disumani ("Che cosa può comprarsi che già adesso non abbia?"; "Il futuro, signor Gittes; il futuro!").
La disperazione radicale di Chinatown, la consapevolezza dell'illusorietà di un'utopia di giustizia in un mondo moralmente corrotto sono suggellate da un epilogo tanto celebre quanto doloroso, perfettamente in linea con il nichilismo che caratterizza gran parte del cinema di Polanski. Quell'aura di romanticismo fuori dal tempo che aveva ammantato il racconto viene dissipata in una manciata di istanti fatidici nella cornice del quartiere cinese, sotto gli sguardi silenziosi dei passanti: una fulminea resa dei conti che frantuma ogni schema narrativo, facendo ripiombare di colpo Jake nel vortice del passato. È un finale letteralmente da incubo, in cui il precipitare degli eventi si consuma con rapidità frastornante dentro un'atmosfera oscura e allucinata, in cui i mostri del subconscio prendono il sopravvento sulle regole della realtà: un'apoteosi di orrore capace di scuotere ancora oggi, a riprova della statura di un capolavoro che in cinquant'anni non ha mai smesso di ammaliarci e farci rabbrividire allo stesso tempo.