I 50 anni di Chinatown, miglior neonoir di sempre (2025)

"Lascia perdere, Jake... è Chinatown". Una delle frasi più famose della storia del cinema compie oggi 50 anni. Chinatown, il capolavoro neonoir di Roman Polanski, rimane un momento iconico nella storia della settima arte, in particolare modo di quella che sa come prendere un genere, omaggiarlo e assieme decostruirlo, deformarlo al fine di parlarci di qualcosa di più grande, e assieme anche di più piccolo. Il regista polacco quel 20 giugno 1974, offriva al mondo la sua ultima pellicola negli States, prima del ritorno nel vecchio continente. Ma come addio, fu senz'altro il più sensazionale che si potesse concepire. Ancora oggi, Chinatown viene indicato come il suo film più grande, superiore anche a Rosemary's Baby, Il coltello nell'acqua, Il Pianista o Repulsion. Questo in virtù di una capacità unica da parte di Polanski, di portarci dentro l'hard boiled, attirarci in una trappola stupendamente architettata assieme allo sceneggiatore Robert Towne, dove realtà storica, finzione e verosimiglianza sovente lasciano il passo ad un simbolismo, che ci allontana dal classicismo, lascia spazio ad una storia dove è l'impotenza dell'uomo, la sua mancanza di controllo sulla Vita e ciò che lo circonda il vero tratto dominante. Il tutto al servizio di un Jack Nicholson, che fu in realtà l'artefice dell'interessamento di Polanski, assieme al produttore Bob Evans.

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La sceneggiatura di Chinatown fu in realtà molto diversa dall'originale che Towne aveva concepito, che venne riscritto più e più volte per volontà di Polanski. Il finale, amaro e segnato dalla sconfitta, è forse ciò che ancora salta maggiormente all'occhio e allontana il film di Polanski dall'essere un mero esercizio di retrospettiva o un noir all'americana tout court. Il genere aveva avuto in Humphrey Bogart il Principe, negli anni '30 e '40 aveva donato capolavori unici, ma il regista polacco sapeva che fare una mera riproduzione di quel periodo narrativo, avrebbe portato al fallimento. Connettendosi alla siccità che aveva colpito Los Angeles negli anni '30, con tanto di guerre legali e speculazioni in grande scala, Chinatown ci faceva conoscere il Detective Jake Gittes (Jack Nicholson), individuo determinato, astuto, tormentato dal suo passato ma dotato comunque di un certo senso dello humor e grande acume. Viene assunto dalla misteriosa e affascinante Evelyn Mulwray (Faye Dunaway) per indagare sulla presunta infedeltà del marito, Hollis Mulwary, che "casualmente" è anche l'ingegnere deputato al controllo dell'acqua nella Città degli Angeli. Quello che doveva essere un caso come tanti per Gilles, lo vedrà intrappolato in una losca cospirazione basata su speculazione, truffe, misteri, al cui centro vi è il padre di Evelyn, il potente e oscuro Noah Cross (John Huston).

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Chinatown non ci parla di un mistero da risolvere, ma di un'impotenza, esistenziale ed universale

Se come punto di partenza Chinatown di Roman Polanski è in tutto e per tutto o almeno così sembra, un prolungamento di ciò che Raymond Chandler e altri grandi autori avevano creato nel genere, la regia, l'estetica, la stessa semantica, se ne allontanano. Il film è una mutazione cinematografica, l'ennesima del cineasta polacco, che da sempre usa il thriller per andare altrove. Diretto quasi completamente in soggettiva, ci fa seguire un Jack Nicholson incerottato sul naso, sovente pestato ma indomito, mentre cerca di raccapezzarsi tra omicidi misteriosi, al fianco di una Dunaway glaciale e disperata ma non mera riproduzione della femme fatale tout court. Chinatown non ci parla di un mistero da risolvere, ma di un'impotenza, esistenziale ed universale. Il detective Gittes cerca la verità sulla scomparsa di un uomo, poi sulla sua morte, poi su quella donna e la sua famiglia. In breve cerca la verità su quella città, torrida, assediata da una siccità che, come nella più classica storia americana, è subito opportunità capitalistica, speculativa. Chinatown distrugge uno dopo uno tutti i pilastri della società americana. La famiglia è coacervo incestuoso e violento, la Patria semplicemente non esiste, viene spazzata via nel momento stesso in cui ci sono soldi da guadagnare a quel Dio, che è il Dio denaro. Il Dio di Polanski è pronto a sommergere tutti, si manifesta nell'acqua, elemento da sempre comune nella sua cinematografia, ma mai come in Chinatown così importante, così presente. Messaggero di morte e instabilità, vale come il petrolio, scorre dentro quella terra che pare sconvolta da tormenti dell'antico testamento biblico.

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In Chinatown ad un certo momento la tensione diventa insostenibile, l'atmosfera è presaga di morte e disperazione, di fallimento e tragedia. A livello di scrittura il film ha pochi pari ancora oggi nella storia della cinematografia, ogni dialogo è una porta verso diverse interpretazioni, lo stile eleva il tutto, compensa un possibile spaesamento del pubblico di fronte a questi continui colpi di scena, misteri, a questo detective che cerca semplicemente di fare la cosa giusta. Nel finale, tragico e dolente, si trova come naufrago su un'isola deserta con quella frase finale, quel "Lascia perdere, Jake... è Chinatown" che è una sentenza che costringe l'umanità a non poter raggiungere il sole, a non trovare una soluzione con cui rivoluzionarie o cambiare la propria vita, perché la vita, alla fine, vince sempre. Si sarebbe e si è ancora oggi discusso moltissimo su quanto Chinatown sia legato ai grandi autori del genere. L'epopea di Philip Marlowe e Sam Spade, insomma le creature di Raymond Chandler sono punti di partenza da cui Polanski si allontana. Appare chiaro il legame con la produzione di Ross Macdonald ma, con ogni probabilità, se si guarda alla struttura narrativa, alla psicologia dei personaggi e alla semantica, al gioco di scatole cinesi, è James Ellroy forse quello più vicino. Abbiamo un gioco di scatole cinesi in cui la verità ci sfugge e poi ricompare davanti, in un viaggio a metà tra sogno e realtà, lucidità e follia di incredibile visceralità.

La colonna sonora di Jerry Goldsmith aiutò il film a staccarsi dalla classicità di forma, lo stesso fece la fotografia, con un lavoro sensazionale di John A. Alonzo. Jack Nicholson, autore qui di una delle sue più grandi performance, lontano dall'istrionismo che lo ha reso tanto celebre, ancora oggi rimane uno dei protagonisti del genere più incredibili, più verosimili e pregni di significato che si siano mai visti. Incluso dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti come opera da preservare, compreso in ogni lista inerente i migliori film americani di tutti i tempi, Chinatown rimane un capolavoro di scrittura, ideazione, regia e forma, l'ennesima prova con cui Polanski, coraggiosissimo, audace e per certi versi anche crudele se vogliamo, abbia saputo comprendere la necessità di allontanarsi dall'happy end. Egli usò i mezzi di Hollywood per allontanarsi da quella concezione prevedibile di opera, la stessa che avrebbe rinnegato e con essa i suoi produttori ingrati, i suoi attori altezzosi, la volontà di lisciare sempre il pubblico per il verso giusto. Il paradosso è che rifiutandosi di farlo, Polanski dimostrò di aver capito nel profondo il genere noir, la sua vera essenza. Per questo, anche per questo, Chinatown a mezzo secolo di distanza rimane il più grande neonoir di tutti i tempi.

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        Giulio Zoppello

        Sono nato a Padova nel 1985, da sempre grande appassionato di sport, cinema e arte, dopo dodici anni come allenatore e scoutman professionista nel mondo della pallavolo, ho deciso di intraprendere la carriera di giornalista.
        Dal 2016 ho cominciato a collaborare con diverse riviste cartacee e on-line, in qualità di critico ed inviato presso Festival come quello di Venezia, di Roma e quello di Fantascienza di Trieste.
        Ho pubblicato con Viola Editrice "Il cinema al tempo del terrore", analisi sul cinema post-11 settembre. Per Esquire mi occupo di cinema, televisione e di sport, sono in particolare grande appassionato di calcio, boxe, pallavolo e tennis.
        In virtù di tale passione curo anche su Facebook una pagina di approfondimento personale, intitolata L'Attimo Vincente.
        Credo nel peso delle parole, nell'ironia, nell'essere sempre fedeli alla propria opinione quando si scrive e nel non pensare mai di essere infallibili.

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